Birmania, Suu Kyi e l’arma del realismo per cambiare il Paese
Articolo di Sandra Zampa su La Stampa del 20 marzo 2013
La deputata Zampa (Pd) ha incontrato la Nobel a Naypiydaw
Sandra Zampa, parlamentare Pd, nel 2007-2008 capo dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio e attuale portavoce di Romano Prodi, è appena stata in Myanmar con una delegazione italiana. Ecco le impressioni che ha ricavato dall’incontro con il Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.
C’è una parola che fa scuotere il capo a Aung San Suu Kyi e la spinge a dire «no» facendo un gesto elegante con la mano: «icona». Tutt’altro che icona vuol essere la «Signora», come la chiamano ambasciatori e leader politici. Lei vuole essere, per il suo popolo e il suo Paese, il Myanmar, l’artefice della nascita di un vero sistema politico istituzionale democratico dopo avere pagato con una prigionia interminabile e il sacrificio dei propri affetti 1’avvio della transizione. Quando l’abbiamo incontrata nel suo ufficio al Parlamento di Naypiydaw indossava il tradizionale abito kachin ed era perfettamente consapevole della delicatezza della fase politica che il suo Paese sta vivendo e dei rischi di fallimento del suo sogno di un futuro pienamente democratico per il Myanmar. «Molte cose devono cambìare, e subìto» ci dice.
Le elezioni si terranno nel 2015 e il risultato sarà determinato dalle conquiste dei prossimi mesi. Suu Kyi ne ha già messo a segno una: la Nld (National League for democracy) l’ha eletta come propria leader nei giorni scorsi. Ma l’esercizio del ruolo politico che segna la seconda fase della vita di Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indípendenza birmana, inizia ora. E lei ad essere nel mirino perché la partita è vitale e il governo di Thien Sein eserciterà tutto il potere politico e finanziario di cui dispone per ostacolare la sua vittoria che oggi appare inevitabile.
Ciò che gli osservatori internazionali chiamano «l’inferno della realtà» in cui Aung San Suu Kyi sarebbe caduta è in realtà l’esito della sua lucida scelta politica di aprire il confronto con il governo per avviare la transizione democratica. E’ stata lei, e non il capo del governo, ad andare al Nord a incontrare gli abitanti dei villaggi che protestano contro l’ampliamento della miniera di rame più grande del Myanmar come stabilito da un contratto stretto dal governo – non certo da lei – con la Cina. Si è recata là assumendo la responsabilità di rappresentare il proprio Paese.
La sua battaglia si combatte ora: la Costituzione va cambiata e c’è bisogno del consenso dei militari. Una partita difficile cui tutto il mondo è chiamato a dare il proprio contributo: guai se non si sosterrà il suo grande sforzo. Nei giorni scorsi Thien Sein ha visitato alcuni Paesi d’Europa, membri del club di Parigi. E’ venuto anche in Italia per ottenere aperture di credito e promuovere investimenti. Ciò richiede un impegno eccezionale della comunità internazionale chiamata a un di più di controlli e verifiche, a un’attenzione straordinaria afiinché nulla concorra ad aumentare la corruzione enorme che domina il Paese e che fa capo ai militari e a coloro che furono protagonisti della cruenta dittatura durata decenni.
La seconda fase in cui la «Signora» è quella decisiva, che determinerà la terza, quella del governo del Paese. Ed è lei la più determinata a liberare dalla paura il suo popolo, la più consapevole della via stretta che deve percorrere tra la domanda di cambiamento dei birmani, il confronto indispensabile con i militari, il rapporto con la Cina, influentissima potenza in Myanmar. E’ lei l’unica a volere uno Stato che riconosca e rispetti una vera autonomia delle diverse etnie (come fece suo padre), mentre il governo ne alimenta i conflitti. Questo ci hanno detto, nei nostri incontri, i diversi leader dei partiti, gli esponenti delle etnie, e i protagonisti, ancora troppo rari, della società organizzata, come gli esponenti di «Generazione88» che riconoscono la forza e il carisma politico di Aung San Suu Kyi, «Ma Ma» per ì birmani poveri e giovani. La «Signora» resta 1’unica vera protagonista politica della nuova fase che il Myanmar vive e l’unica in grado di prendere in mano il destino del suo Paese guidandolo verso una democrazia piena, e una libertà vera. A lei, che sta assumendo su di sé con la forza morale che l’ha sorretta durante i lunghi anni della prigionia la responsabilità di tutta la complessità dei problemi del suo Paese, il mondo deve dare un segnale: non possiamo restare indietro di fronte al suo coraggio. E’ ora che la voce del mondo torni a farsi sentire per ottenere un cambiamento della Costituzione. E tempo che avvenga.