Chi fa politica ha il dovere di capire le ragioni dell’astensionismo e recuperare al voto chi vi ha rinunciato

Sulla Direzione nazionale PD dell’8 giugno

Non mi appassiona il dibattito sull’esito elettorale ridotto a tifoseria, tra quelli “che abbiamo vinto” e quelli “che invece non è vero, le cose sono andate male”.

I numeri parlano da soli ed è a tutti evidente che se ci fermiamo ai dati che consegnano al PD la vittoria in 5 regioni su 7, dobbiamo dire che il partito ha superato la prova delle urne nella maggioranza delle amministrazioni al voto.

Se, invece, scegliamo di leggerne altri (i nostri candidati hanno perso più di 8 punti presso i votanti rispetto al 2011) non mancano le ragioni di preoccupazione. Soprattutto ciò vale se si guarda sul medio-lungo periodo ad alcune dinamiche politiche, la più delicata delle quali ha a che fare con il venire meno (anche come conseguenza dell’Italicum) della coalizione e con la nascita di nuove forze a sinistra.

Scegliere una lettura piuttosto che un’altra non significa volere più o meno bene al PD. Di certo chi ha cuore il PD ma, soprattutto, il destino del nostro Paese e la qualità della sua democrazia, non può sottrarsi alla preoccupazione per la percentuale registrata alla voce “astenuti”.

Anche volendo ammettere che sul dato abbia influito lo scarso interesse dei cittadini nei confronti della Regione, ente poco apprezzato specialmente dopo i pessimi comportamenti di molti consiglieri regionali, il numero di chi ha preferito rinunciare all’esercizio del proprio diritto/dovere di voto, è troppo alto per permetterci di liquidarlo in questi termini.

E se l’argomento dello scarso appeal delle regioni si nutre dell’esempio Emilia Romagna (dove ha votato lo scorso anno meno del 40% degli aventi diritto) siamo proprio fuori strada ed è dannoso confondere e non capire cosa è accaduto lì. Lo dico perché ci vivo da quando sono nata e credo di conoscere abbastanza la mia terra.

Su questi punti in direzione avremmo potuto risparmiarci ieri notte parte di un confronto che sembra più ispirato dal desiderio di dividersi che di capire. Chi punta il dito sulla percentuale dell’ astensione non è meno affezionato al Pd di chi preferisce non farlo. Non credo di averli incontrati solo io quelli che nelle settimane precedenti il voto ci hanno mandato mail o ci hanno detto in faccia che per questo giro sarebbero restati a casa.

Chi fa politica ha il dovere di interrogarsi sulle ragioni di un così diffuso astensionismo, sulle responsabilità, sui modi e gli strumenti per recuperare al voto chi vi ha rinunciato. Di questo la direzione di ieri notte ha discusso poco e male perché, appunto, l’ha fatto con accenti da tifoseria.

Anche da parte del segretario Renzi non sono arrivate sufficienti riflessioni sul punto. Si è scelto di rimanere alla lettura di 5 a 2, assai più facile che avviare una vera analisi così come facile era attribuire all’eccesso di divisioni nel partito parte della penalizzazione delle potenzialità del Pd. Non la penso così. Le divisioni non attraversano più solo il “ceto” politico ma la base. Basta entrare in un circolo o partecipare a un confronto in una delle feste dell’unità tra le tante in corso per rendersene conto.

E il pluralismo -purchè vero- ha aiutato il partito facendo sentire ancora rappresentati segmenti della società o sensibilità, o valori.

Una autocritica dal segretario è arrivata invece sulla questione della scuola e ha toccato un reale punto di sofferenza: il mancato coinvolgimento di parte dei protagonisti della riforma. L’impegno a correggere il tiro e a tempi più distesi per arrivare all’approvazione della riforma potendo così inserire le necessarie correzioni sono scelta saggia.

Due temi in particolare il segretario ha indicato alla direzione e al partito come punti di sofferenza e certamente di insufficiente elaborazione politica. Immigrazione e questione morale/giustizia. Temi centrali per il presente e il futuro del Pd ma anche del nostro Paese.

Concordo con Renzi quando stigmatizza la pessima comunicazione con cui si affronta il tema degli sbarchi e sono anche io convinta che su questo tema il centro sinistra misurerà le proprie possibilità di successo elettorale in molti territori italiani. Paradossale subire l’attacco della Lega che, di fatto, ha gestito il problema per più di un decennio sprecando le risorse e senza alcuna capacità di costruire risposte di lungo periodo.

Ma il tema va affrontato in modo approfondito (con una visione di lungo periodo ) e concreto. Per questo chiedo al segretario di dedicare all’immigrazione una sessione di lavoro interno al PD come si è fatto per scuola, Rai ed altro, per valutare politiche e norme: dalla questione dei minori stranieri non accompagnati, al diritto d’asilo, alla cittadinanza. È tempo di affrontare con coraggio la questione.

Sulla questione della giustizia ho una certezza: alle nostre parole e alle nostre regole non possono corrispondere comportamenti continuamente differenti magari perché improntati alla contingenza. Solo per fare un esempio: se la Legge Severino esiste va rispettata. Sempre e con tutti. Non cedere al giustizialismo è sacrosanto, non offrire all’esterno la certezza che la maestà della Legge viene al primo posto per il Pd è sbagliato.

Credo sia superfluo dire che ciò che le cronache giudiziarie ci consegnano di nuovo oggi sugli scambi illegali tra politica e società esige la messa in campo di anticorpi più robusti. Questo tema trova nel nostro tradizionale elettorato un nervo scoperto e mi pare difficile immaginare che non abbia a che fare con la decisione di astenersi dal voto. Assumendo una richiesta che arriva da diversi nostri circoli all’estero credo sia giusto sollecitare il presidente Orfini e il segretario a costituire il Pd parte lesa nella vicenda cosiddetta di “mafia capitale”.

S.Z.

PS: La notte scorsa ho ritirato la richiesta di intervento in direzione. Era da molto passata l’una e mi è sembrato più rispettoso per me e per la platea scegliere questa strada. Non ho così potuto replicare all’intervento di Andrea Ranieri, che ha preso la parola per annunciare la propria uscita dal Pd al seguito di Civati. Voglio sottolineare che le ragioni che ha indicato sono le stesse che hanno invece portato tanti, a cominciare da me, a confermare la propria scelta di mantenere il proprio impegno all’interno del Partito.

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